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L'intervista
che leggerete è la trascrizione integrale di un pomeriggio trascorso
assieme a Maurizio Solieri, da soli, parlando per ore davanti al registratore
acceso senza nemmeno bere un caffè. Ho volutamente deciso di mantenere
l'andamento del nostro discorso, e quindi troverete un'intervista piena
di incisi, di parentesi, un'intervista caratterizzata, come dice lo stesso
Maurizio, da una narrazione circolare. Non la solita botta e risposta.
Ho cercato di trasmettervi esattamente quello che Maurizio ha trasmesso
a me. Alla fine mi sono accorta che non ho parlato di chitarre, di corde,
di amplificatori, di tutto quello che di solito si crede interessi maggiormente
al pubblico dei lettori. Proprio non mi è venuto in mente, presa
com'ero a seguire tutti gli stimoli e tutti gli spunti che Maurizio mi
lanciava durante la conversazione. Credo che questa intervista rappresenti
bene quello che desidero ricevere dall'incontro con un musicista: per
capire come suona basta la musica, ma per capire perché suona in
un certo modo non basta parlare di chitarre e di ampli, di gusti musicali
e di tecniche. Recentemente, confrontandomi con alcuni lettori incontrati
ai concerti o ai seminari, mi sono accorta che molti di voi hanno le mie
stesse esigenze. Sono sicura che questa intervista vi soddisferà.
Mi scuso con gli altri, con quelli che si disinteressano delle analisi
e delle esperienze: questa intervista a quel genere di lettori non piacerà
proprio.
Maurizio Solieri è una persona che oltre a suonare come tutti sanno
possiede una concettualizzazione invidiabile della musica e del mondo
musicale: ascoltarlo parlare è una lezione per tutti, anche per
coloro che si troveranno in disaccordo. Anzi, ben vengano i pareri contrari,
ben vengano le polemiche: tutto è meglio dell'appiattimento, nessuno
è mai cresciuto senza riflettere.
(Un'ultima cosa: avevo giurato a me stessa di non domandargli di Vasco
Rossi. Pensavo che se voleva parlarne, doveva farlo spontaneamente. È
stato così, ed è anche per questo motivo che ho mantenuto
per iscritto l'andamento di questa nostra chiacchierata. Perché
capire il rapporto con Vasco in tutte le sue implicazioni significa anche
capire dove sta andando Solieri e, soprattutto, apprezzarne la determinazione,
il coraggio, l'umiltà, la voglia di "metterci la faccia").
GUITAR
CLUB: Che cosa hai fatto nell'ultimo periodo?
MAURIZIO SOLIERI: A partire dall'estate
95, quindi dopo l'ultimo concerto fatto con Vasco, "Rock sotto l'assedio",
ho avviato una serie di nuove collaborazioni e di nuovi progetti. Proprio
nel '95, assieme a Dodi Battaglia e Franco Mussida, ho dato vita a "Chitarre
d'Italia", un progetto per me molto stimolante dato che da tempo cercavo
un modo nuovo per collaborare con altri musicisti. Credo che pochi
conoscano questo aspetto del mio carattere: sono un musicista che cerca
ed insegue la collaborazione e lo scambio artistico. Più volte
nel corso della mia carriera, anche e soprattutto quando ero l'invidiatissimo
guitar hero di Vasco, ho cercato di contattare dei colleghi per proporre
progetti comuni, concepiti a volte come episodici ed estemporanei, a volte
come qualcosa di maggiormente strutturato e complesso... Ho comunque avuto
poca fortuna: la maggior parte dei colleghi non aveva mai il tempo necessario
per seguire attivamente progetti di questo tipo, anche se, verbalmente,
quasi tutti quelli interpellati si dimostravano entusiasti all'idea di
collaborare. Certo, è vero che il musicista spesso assume impegni
a lungo termine, che è costretto a ritmi imposti dalla produzione,
che ha poco tempo per sperimentare nuove collaborazioni svincolate da
una finalità professionale immediata, tuttavia io credo che in
Italia manchi del tutto una mentalità collaborativa. Credo che
il musicista medio italiano tenda a chiudersi dentro il proprio orticello
con un atteggiamento di difesa e di diffidenza nei confronti dei colleghi.
In Italia la collaborazione è vissuta in realtà come una
sfida: suonare assieme non è vissuto come il piacere di creare
e sperimentare, diventa piuttosto una sorta di competizione più
o meno esplicita, una gara per far vedere al pubblico chi è il
più bravo, chi fa più note, chi è più figo
sul palco...
G.C.: Scusa se ti interrompo, ma il
discorso mi interessa: perché accade questo, secondo te? C'è
veramente qualcosa nella nostra mentalità che ci porta ad
avere atteggiamenti tanto diversi rispetto agli altri paesi? Noi italiani
siamo destinati a crogiolarci nel nostro individualismo anche per quanto
riguarda la musica?
M.S.: Beh, il discorso sull'individualismo
ci porterebbe molto lontano... Per rimanere all'interno di una prospettiva
strettamente musicale, io credo che il pubblico italiano sia un pubblico
mediamente dotato di buona cultura musicale, e quindi potenzialmente in
grado di apprezzare forme di espressione che escano dai rigidi canoni
imposti dall'industria della musica. Sono l'ambiente musicale, i media,
i produttori, le case discografiche, a determinare un andamento piuttosto
piatto che incentiva le collaborazioni tra artisti solo in presenza di
effettive e concrete finalità commerciali, all'ombra delle logiche
di scuderia. È chiaro che diventa molto difficile organizzare delle
cose tra musicisti seguendo la logica del puro scambio musicale, che per
me è una cosa davvero semplice: due musicisti si mettono assieme,
seguono per un certo tempo un progetto comune, confrontano due stili e
due differenti modi di intendere e vivere la musica e lo strumento, costruiscono
un percorso, dando vita a qualcosa di nuovo che è diverso dalla
somma dei due distinti mondi musicali è un terzo mondo. un terzo
modo di concepire la musica nato dall'incontro di due personalità
e di due vissuti distinti. Da questo genere di esperienza, tutti potrebbero
trarre benefici: il pubblico, che riceverebbe stimoli nuovi e i musicisti
stessi che, grazie al confronto, crescerebbero e uscirebbero dagli schemi
inevitabilmente imposti dall'esercizio della musica come professione.
In questo senso il progetto "Chitarre d'Italia" è stato importante:
tre chitarristi diversi per vissuto, personalità e impostazione
si sono uniti e, pur mantenendo la propria unicità, hanno costruito
assieme qualcosa.
G.C.: Come sei riuscito a mettere
in atto il progetto?
M.S.: È stato piuttosto facile,
tutto è cominciato da una telefonata con Dodi. Sentendoci al telefono,
entrambi ci lamentavamo della situazione italiana, dell'impossibilità
di un confronto reale tra musicisti di un certo peso. Tutti e due andavamo
con il pensiero alle nostre origini, ricordando i nostri rispettivi esordi,
quando la musica era sudore condiviso, esplorazione collettiva, entusiasmo
continuo. Ci è venuta voglia di recuperare qualcosa di quell'entusiasmo
adolescenziale, di dimostrare a noi stessi prima che agli altri che la
professione, la consuetudine con il palco, i dischi macinati, le infinite
ore in studio di registrazione alle spalle, non erano incompatibili con
un atteggiamento più audace, non spegnevano gli entusiasmi degli
esordi. Abbiamo sentito l'esigenza di rimetterci in gioco e, invece di
farlo in cantina per i fatti nostri, abbiamo ritenuto più giusto
e sincero farlo coinvolgendo il pubblico, non certo per dimostrare qualche
cosa, unicamente per renderlo partecipe di questo nostro desiderio di
sperimentazione, una sperimentazione esistenziale prima ancora che musicale.
Proprio perché alla base di tutto c'erano delle motivazioni così
legate al nostro vissuto, al nostro modo di intendere la musica, alla
nostra esperienza di uomini, Dodi ed io abbiamo pensato di coinvolgere
nel progetto Franco Mussida, un grande chitarrista di cui, per diversi
motivi, tutti e due ci siamo sempre considerati un po' figliocci. Franco
ha accettato e così il progetto ha preso il via. Ricordo ancora
il primo nostro appuntamento: era una domenica mattina e Dodi e Franco
sono arrivati a casa mia, con gli strumenti, proprio come tutti abbiamo
fatto da ragazzi.
G.C.: Dalle tue parole mi pare di
capire che, oltre al desiderio di confronto, era molto forte anche la
voglia di fare un viaggio verso le origini dell'entusiasmo...
M.S.: È assolutamente vero,
e per spiegartelo vorrei raccontarti qualcosa della psicologia del chitarrista
quarantenne...
G.C.:
Come sai per me è un invito a nozze, ma stiamo attenti: c'è
già qualcuno che mi accusa di fare il gossip della chitarra, se
arriviamo a parlare di calo del desiderio non mi salvo più...
(n.d.a.: Maurizio ride con quella sua bella risata larga e dice che il
sesso non c'entra niente, c'entra, manco a dirlo, l'entusiasmo.)
M.S.: Più volte nella mia carriera
mi sono accorto che i chitarristi della nostra generazione, quelli che
sono arrivati alla boa dei quaranta, generalmente sono capaci di entusiasmarsi
moltissimo, più dei ventenni o dei trentenni. E guarda che questo
vale anche per i chitarristi internazionali. È un discorso generazionale,
bisogna ripercorrere la storia della musica tenendo presente anche la
storia del costume e della società e cercare di capire qual era
il clima culturale e sociale in cui i quarantenni di oggi si sono formati...
Scegliere di fare il musicista venti, venticinque anni fa, era una scelta
di vita molto più complessa e ardua di quanto lo sia oggi. Oggi
l'unico problema è quello di diventare abbastanza bravo per poter
lavorare, di avere abbastanza fortuna e abbastanza talento per vivere
facendo musica. Negli anni '60 la questione era molto diversa: scegliere
la vita e la professione del musicista implicava inevitabilmente uno scontro
con il sistema esterno, una lotta contro i pregiudizi. Chi decideva di
proseguire nella musica lo faceva a suo rischio e pericolo, sapendo di
doversi scontrare contro tante cose, contro una mentalità diffusa
terribilmente chiusa e limitativa, contro l'assenza di strutture d'ausilio,
di luoghi deputati a suonare, di punti di incontro, di scuole, di videocassette,
di metodi, di giornali specializzati... Il musicista era davvero solo,
appoggiato solamente da quelli che, come lui, avevano deciso di dare una
scrollata ai luoghi comuni. Era quindi naturale che si creasse una sorta
di affinità, di solidarietà e anche un entusiasmo speciale
che accomunava quanti, in nome della musica, sceglievano di scontrarsi
e di lottare contro ostacoli che oggi si fa fatica ad immaginare. I quarantenni
di oggi hanno lottato per attuare la loro scelta e la musica per loro
non è mai mestiere, business, divertimento, è molto di più,
ha quel valore speciale che le cose acquistano solo quando si è
combattuto per raggiungerle. E poi, scusa, consentimi un'altra piccola
digressione...
G.C.: Consento e acconsento a tutto
e sento che il filo logico di questa intervista mi sta sfuggendo di mano,
ma va bene così, anzi: va meglio.
M.S.: Perfetto, ho una narrazione
concentrica ma poi riprendo il tuo filo logico, non preoccuparti, lasciami
solo dire due parole sul concetto di "entusiasmo". Non si tratta del divertimento
che la musica procura o della carica che uno mette nel suonare. L'entusiasmo
è molto di più: è energia, impegno, passione, consapevolezza,
audacia, voglia di andare avanti, non fermarsi mai sui risultati acquisiti
ma cercare sempre un nuovo modo per esprimersi con la musica, tenendo
sempre presente, in ogni momento, che non suoniamo per noi stessi e quindi
c'è un pubblico a cui abbiamo l'onore di rendere conto. In questa
prospettiva cambia anche il rapporto tra il musicista e il suo strumento:
oggi si vedono in giro dei principianti già attrezzati di un equipaggiamento
incredibile, strumenti che non sono nemmeno in grado di apprezzare fino
in fondo, come se per suonare bene servisse quasi esclusivamente una chitarra
costosa e super accessoriata... Io gli strumenti che ho avuto me li sono
sudati tutti, guadagnati fino in fondo, e quindi apprezzati anche nelle
sfumature. La prima chitarra elettrificata che utilizzai fu una vecchia
Eko da otto- mila lire amplificata con un pick up del giradischi collegato
all'uscita fono di una radio e come me ce ne sono decine di musicisti
che hanno cominciato così. È per questo che anche oggi,
quando prendo uno strumento in mano, mi emoziono e mi entusiasmo ancora.
G.C.: Mi piace molto questa tua analisi
sociologica dell'entusiasmo che arriva anche a coinvolgere il rapporto
con gli strumenti e quindi sottolinea implicitamente quella specie di
consumismo che caratterizza oggi il fruitore medio di materiale musicale,
quasi che con l'atto di acquisto di una mega chitarra o dell'ultima video
cassetta didattica americana si potessero anche raggiungere dei risultati
musicali... Come quelli che al chitarrista famoso, invece di chiedere
quali passi lo hanno portato ad essere quello che è, quali sacrifici
e quali incontri, quali intuizioni e quali talenti, domandano se per fare
il bending serve leggere la musica...
M.S.: Infatti, un atteggiamento del
genere non porta lontano, e potremmo arrivare a parlare della ben nota
differenza tra musicista e strumentista. Ma torniamo al nostro argomento
principale: "Chitarre d'Italia". È stato un modo per trovare dei
nuovi stimoli assieme a musicisti che, per quanto diversi da me, hanno
una storia in comune e, come ho spiegato, assieme alla storia hanno alle
spalle una lotta e nel cuore un certo modo di concepire la musica. Ricordo
con molto piacere la nostra prima esibizione pubblica durante l'importante
Festival Blues di Napoli del '95, un Festival a cui hanno
partecipato grandi musicisti nazionali e internazionali. L'incontro con
certi bluesmen mi ha davvero fatto piacere, anche perché io mi
considero di cultura anglo-americana e le radici della mia preparazione
affondano negli USA e in UK: agli inizi della mia formazione non ho seguito
troppo l'evolversi della situazione musicale italiana. Da bambino ascoltavo
Presley; mio fratello era stato in America alla fine degli anni '50 ed
era tornato con la valigia piena di dischi di Elvis di cui mi sono subito
impossessato, poi sono passato agli Shadows, ai Beatles, agli Stones...
Ho sempre cantato in inglese e musicalmente ho sempre avuto un occhio
rivolto alla cultura musicale anglo-americana mentre non ho assolutamente
nutrito la mia conoscenza di cantautori italiani, anche perché
chitarristicamente fare un pezzo di Lucio Battisti - Mi Re La Sol - non
mi ha mai stimolato troppo... Per me la prima uscita con le "Chitarre
d'Italia" è stata molto soddisfacente anche perché ho avuto
la possibilità di jammare assieme a Dodi con Jack Bruce facendo
i classici dei Cream o di Eric Clapton che io suonavo quando avevo dodici
anni... Comunque, ci sarà uno sviluppo in vinile entro il '98 di
"Chitarre d'Italia". Il concetto di base dei pezzi nuovi che stiamo preparando
per l'album è l'aspetto acustico che sarà esaltato dalla
continua interazione tra le tre chitarre; anche se ci sarà spazio
per momenti solistici, vi sarà un grande lavoro di armonizzazione
volto a mantenere anche in questo tipo di composizioni il minutaggio della
pop song. Non ci saranno interventi di chitarra elettrica. Ci potranno
essere dei tocchi particolari, delle pennellate di diversi linguaggi
musicali, dal blues alla bossanova alla musica classica, mantenendo però
sempre una forma musicale fruibile e facilmente comprensibile. In alcuni
pezzi, vi saranno dei brandelli di testi, non certo la struttura tipica
della canzone melodica, strofa inciso e assolo chitarristico, piuttosto
delle frasi cantate, armonizzate a volte a tre voci, a volte da uno solo
di noi tre. Tutti i pezzi sono stati composti da noi appositamente: certi
brani erano stati scritti da uno di noi tre e poi sono stati riarrangiati
collettivamente, altri brani sono stati scritti da uno e arrangiati da
un altro, in totale libertà e con un'atmosfera generale che incentivava
la sinergia, l'interattività anche a livello compositivo e non
solo a livello esecutivo e interpretativo. Abbiamo sempre lavorato nel
classico salotto con le tre chitarre acustiche e un piccolo registratorino
cercando di sviluppare l'uno gli input degli altri. Non sarà un
disco rock: sarà però un disco energico, molto mediterraneo,
con spunti new age.
G.C.: Un altro progetto interessante
che ti vede coinvolto in prima persona, addirittura con la voce, è
il duo con Proce di cui ormai stanno parlando in molti... Vuoi raccontarci
qualcosa?
M.S.: Certo, ma a questo punto, anche
se non me lo hai ancora chiesto, c'è qualcos'altro che ti voglio
raccontare. Come tutti sanno, ho lavorato per tantissimi anni con Vasco,
con uno staff che ho contribuito a creare e con una serie di soddisfazioni
professionali e umane che per me sono state importantissime. Parlo di
un periodo di vita lunghissimo: dal '77 al '95, se ci pensi sono davvero
tanti anni. Per una mia scelta precisa e consapevole mi sono dato anima
e corpo a questa situazione, anche se più volte, come ho detto
prima, ho sentito forte dentro di me l'esigenza di confrontarmi con altre
situazioni e altri artisti, di crescere in altre direzioni, pur senza
tradire né mettere in secondo piano il discorso musicale ed esistenziale
che assieme a Vasco e agli altri musicisti portavamo avanti. Ma, oltre
alle difficoltà di cui parlavamo prima, io ero sempre visto come
"il chitarrista di Vasco Rossi", quasi che la mia chitarra funzionasse
solo con Vasco o con la Steve Rogers Band. Durante tutta l'era di Vasco,
pochi hanno realmente voluto confrontarsi con me. Vorrei raccontare un
episodio: tre anni fa accarezzavo il progetto di fare un disco da
solo chiamando come ospiti i personaggi più rappresentativi del
rock italiano, e anche qui, ci sarebbero degli approfondimenti da fare
sul concetto di rock ...
G.C.:
Credo che sia la seconda parentesi che apriamo senza chiudere: se poi
ritrovi il filo, approfondiamo pure, così magari mi chiarisci le
idee sul concetto di rock italiano che io non capisco più,
non riesco più a distinguere dal resto della musica...
M.S.: Chiaramente io posso aiutarti
in base alla mia sensibilità e alla mia storia, le mie parole non
hanno pretesa di assoluto, anzi certe persone potranno trovarsi in totale
disaccordo con quello che ti dirò... Oggi si fa un gran parlare
di rock italiano, citando gruppi che per me non fanno rock. Per me il
rock non è quello omologato tipo Nomadi o CSI, così come
non bastano le magliette di Che Guevara e i libri giusti per costruire
un'atmosfera rock... La musica è rock quando ci sono sia i contenuti
che la forma rock. Per me il rock è musica grintosa che trova
le sue radici in una visione rock nel senso esistenziale del termine
e che si esprime attraverso una base di chitarra forte e personale, energetica
e vitale. Il rock poi, per sua stessa natura, accoglie contaminazioni
che vanno dal blues alla fusion all'heavy e questa apertura verso differenti
linguaggi musicali non toglie nulla a quella che è l'anima
propria e costitutiva della musica rock. Oggi invece si tende a spacciare
per rock un tipo di musica che ha perduto questa anima e si è impossessato
solo dei codici più esteriori del rock.
G.C.: Quindi in molti casi possiamo
dire che la forma ha invaso la sostanza, si è in qualche modo sostituita
ad essa ed ha perduto la linfa vitale che fa di un linguaggio musicale
una categoria dello spirito, una forma d'arte, un fenomeno in grado di
veicolare valori e visioni del mondo e del tempo. Quindi certi concerti
cosiddetti rock sono riti vuoti che tentano di esprimere una emozione
che non c'è più e certi riff di chitarra, certi suoni, certi
gesti sullo strumento diventano pura tecnica, pura esibizione, pura forma
e forse è per questo che mi trasmettono la stessa noia di una videocassetta
didattica...
M.S.: Io la penso così, ma
attenzione: la nostra è una posizione scomoda, che può essere
pesantemente contestata, e scrivere queste cose ti chiamerà addosso
una valanga di critiche. Io ho le spalle larghe, ma tu puoi sempre scegliere
la via della diplomazia.
G.C.: Non è mia abitudine far
sbilanciare un interlocutore e poi lasciarlo solo nella esposizione di
idee che condivido profondamente. Torniamo al tuo progetto di un disco
rock...
M.S.: Bene, era un disco di concezione
americana: a mio nome con la partecipazione e il coinvolgimento artistico
di musicisti rock che avrebbero dovuto ritagliarsi in modo creativo il
loro spazio, intervenendo dappertutto, dagli arrangiamenti ai cori, dalle
parti strumentali al cantato, magari cimentandosi in cose diverse dal
loro solito, proprio come fanno gli artisti internazionali. Era, nella
mia testa, un modo per dar voce all'anima rock dei grandi musicisti e
cantanti di casa nostra, dando loro la libertà di esprimere la
propria anima nei modi che preferivano, liberi dai ruoli codificati. Avevo
anche composto dei pezzi, contattato le persone che ritenevo giusto coinvolgere
nel progetto: come al solito a livello verbale tutti si erano dichiarati
entusiasti e convinti, poi, al dunque, non se ne è fatto niente.
Impegni, contratti, tournée, vincoli: la solita storia. Ho raccontato
questo episodio solo per far vedere che più volte, in passato,
ho cercato di fare cose diverse, sia per il desiderio di scambio e di
collaborazione, sia perché in fondo mi è sempre stato stretto
essere ritenuto "il chitarrista di Vasco". Attenzione, però, con
questo non voglio assolutamente sembrare ingrato e, soprattutto, non voglio
essere frainteso, non voglio che si pensi che dico così adesso
che il mio rapporto con Vasco si è concluso. Si cresce con la molteplicità
e la diversificazione delle esperienze, e ho sempre creduto, anche nei
tempi di massimo affiatamento con Vasco, che sarei stato un musicista
migliore sperimentandomi in altre situazioni musicali. Ecco, questo
è essenziale: non vorrei che qualche malevolo pensasse che questa
esigenza di altre esperienze e di scambio sia sorta con la fine del sodalizio
con Vasco: l'ho sempre avuta, anche se chiaramente avevo meno tempo e
meno possibilità di metterla in pratica.
G.C.: Ancora una volta mi hai dato
il LA e ancora una volta io non mi tiro indietro.Ti faccio una domanda
ovvia ma so che tanti lettori vogliono saperlo con chiarezza, leggendo
le tue parole nero su bianco: avevi una fama ingombrante? Hai vissuto
male il tuo ruolo così definito per tanti anni? Ti sentivi altro?
M.S.: Grazie di avermela fatta, questa
domanda: io dico spesso che non si può prescindere dall'ovvio.
Sì, avevo una fama ingombrante, certe volte nella mia vita mi sono
sentito un poster appeso in una stanza, spesso la gente non ha voglia
di vedere dentro, di capire, e si accontenta della apparenza. Ma, per
essere sincero, il peso della mia fama mi è caduto addosso una
volta che il mio rapporto con Vasco si era concluso, tra l'altro
in modo piuttosto sgradevole. In quel periodo mi sono accorto di essere
per tutti ancora e sempre non solo il chitarrista di Vasco ma il suo amicone,
quello che vedeva Vasco a colazione a pranzo e a cena, cosa che non è
mai stata vera. Io ho avuto con Vasco un rapporto molto forte anche dal
punto di vista umano ma non abbiamo mai vissuto in simbiosi. Certo, nei
primi tempi assieme alla band e al produttore eravamo una specie di famiglia,
questa è una cosa che spesso si verifica nei gruppi che perseguono
un progetto forte, che sono accomunati da molti valori e molti desideri.
Ma con gli anni questo affiatamento fuori dello studio si è perso,
anche perché Vasco è un cane sciolto, è un
uomo che giustamente tende a vivere una vita sua, privata, e non divide
le ore della sua giornata con i musicisti. Quindi noi non eravamo i compagnoni,
ma nell'immaginario della gente questa cosa è dura a morire. E
poi, voglio rispondere al resto della tua domanda perché tocca
un tema che per me adesso è molto importante. Ho vissuto male il
fatto di essere ancora oggi considerato solo "il chitarrista di Vasco"
proprio perché mi sentivo altro: mi sono sentito sempre un musicista
completo, intendo dire anche uno che sente la musica dentro di sé
ed è in grado di comporla. Ho scritto dei pezzi per Vasco ma ho
finito per essere identificato solo per il modo di suonare la chitarra
o, quel che è peggio, per il modo di stare sul palco. Nella band
di Vasco ho avuto certo il mio spazio, Vasco me lo ha sempre riconosciuto,
ma questo poi non è mai stato comunicato all'esterno. Quando abbiamo
cominciato a lavorare assieme, Vasco non aveva certo un forte background
rock: era molto più ferrato sui cantautori italiani, ascoltava
i Rolling Stones ma era privo di quella profonda cultura rock che io mi
ero costruito negli anni. Certe sonorità, una certa impronta, certe
suggestioni, credo di essere stato io a portarle e a immetterle in quello
che poi è passato alla storia come "il mood di Vasco Rossi". Pertanto,
guarda, è difficile esprimerlo, ma il discorso diventa paradossale:
mi sono sentito schiacciato da una fama ingombrante e, al tempo stesso,
limitante. Per gli altri Solieri era bravissimo, famosissimo,
come tu dicevi prima a registratore spento, un po' ombroso, misterioso,
lontano dallo show business, dall'ansia di apparire a tutti i costi e
quindi, forse proprio per questo, così ben incasellato dentro allo
scomodo ruolo di guitar hero del grande rocker italiano... E il risultato,
ovviamente, era che dopo Vasco non lavoravo, non mi chiamava nessuno.
Ho provato a propormi a vari personaggi famosi del rock italiano ma nessuno
si è arrischiato a prendermi. In più considera che non sono
uno yes man, uno che fa quello che gli dicono senza metterci niente di
suo, sono un professionista con anni di lavoro alle spalle e, soprattutto
per quanto riguarda gli arrangiamenti delle chitarre, ho voglia di dire
la mia. Quando lavoravo con Vasco, dopo i primi anni, gli arrangiamenti
delle chitarre li facevo da solo assieme al fonico, Maurizio Biancani,
spesso senza il produttore. E, al 90% erano perfetti, Vasco li ascoltava
e li approvava: c'erano ormai tali e tanti automatismi, una tale conoscenza
e condivisione, che io sapevo interpretare con la chitarra quello che
Vasco voleva esprimere.
G.C.: Avresti pensato, quando hai
iniziato a suonare, di ritrovarti quasi schiacciato dalla tua fama, in
un periodo finalmente concluso della tua vita?
M.S.: No, assolutamente no, quando
ho cominciato non mi sono certo fatto dei problemi. Credo che raccontare
qualche cosa della mia storia possa far capire, a te e ai lettori, che,
se ero molto preparato musicalmente, non ero altrettanto preparato in
altri settori che coinvolgevano comunque la professione del musicista.
Mio padre è medico e in casa mia era abbastanza scontato che noi
figli ci laureassimo tutti, la mia era la classica famiglia borghese che
dava enorme importanza alla cultura. Nonostante io avessi dimostrato fin
da piccolo una netta predisposizione artistica e soprattutto musicale,
il fatto che diventassi un chitarrista era una ipotesi che i miei
genitori ritenevano assurda e impraticabile. All'inizio vivevo la musica
come il grande amore della mia vita, qualcosa che catalizzava tutte le
mie energie ma avevo comunque scelto di laurearmi in medicina e sono arrivato
al terzo anno di facoltà. Non avevo mai fatto l'orchestrale, non
avevo mai suonato per guadagno. Fino a ventitré anni ho abitato
con i miei e ho vissuto la classica vita del figlio di famiglia per bene.
Fino a quando ho capito che non mi sentivo di appartenere totalmente
a quel mondo, ho percepito la profonda differenza che c'era tra me e i
miei compagni di corso e ho iniziato a credere di dover scegliere di vivere
un'altra vita. Mi presi un anno di tempo per pensare e anticipai il servizio
militare: posso dire che mi è servito molto. Nonostante le situazioni
difficili che la vita militare mi ha riservato, quel periodo è
stato per me una grande scuola di vita ed è stato utilissimo per
farmi decidere tante cose. Prima di tutto ho deciso che la musica sarebbe
stata la mia professione. Una volta tornato dal servizio militare, ho
cominciato a lavorare in una radio libera, che già allora era una
delle prime radio di Italia, e sono andato a vivere da solo. Guadagnavo
300.000 lire al mese e condividevo un appartamentino con Massimo Riva:
più tardi si sarebbe unito a noi anche Vasco. Abbiamo cominciato
a suonare, senza nessuna concezione e consapevolezza dell'ambiente in
cui ci stavamo inserendo. Non avevamo frequentato le scuole di musica
e questo incide non solo sul tipo di preparazione musicale ma anche, in
senso lato, sul tipo di conoscenza che uno sviluppa circa i meccanismi
discografici e di produzione artistica: un ragazzo che oggi esce da una
scuola di musica di media grandezza, sa già tante cose sull'ambiente
musicale, così come il lettore delle riviste specializzate che,
attraverso l'esperienza dei musicisti affermati, gli articoli e gli approfondimenti,
può sviluppare una visione di insieme già abbastanza strutturata.
Noi, quelli della mia generazione, non sapevamo niente perché avevamo
imparato a suonare da soli, avevamo messo su i primi gruppi in cantina,
non avevamo nessuna pubblicazione specializzata a disposizione e non frequentavamo
scuole di musica. Ci siamo buttati, e abbiamo imparato vivendo. Ci siamo
inventati tutto e la gioia di suonare in una band ci ha portato a disinteressarci
di tutti gli aspetti collaterali alla musica: quando nel 1981 facevamo
le prime televisioni, non ci veniva nemmeno in mente che la Rai potesse
pagare un gettone di presenza alla band e non abbiamo mai pensato di chiedere
dei soldi extra per esibirci in TV. Stessa cosa per i diritti d'autore:
quanti arrangiamenti, quante parti, quanta musica abbiamo regalato senza
sapere che avevamo il diritto di vederci riconosciuta una royalty per
tutta la musica che componevamo di getto in sala di registrazione! Eravamo
troppo presi dall'idea di suonare la musica che ci piaceva per occuparci
del business e troppo poco informati per pretendere un certo trattamento.
Ho raccontato queste cose per far capire che io, all'epoca del mio incontro
con Vasco, ero assolutamente digiuno di tante cose, non ero assolutamente
consapevole dei meccanismi e degli ingranaggi del mondo musicale, avevo
solo entusiasmo e talento. Con il successo le cose si sono complicate,
i rapporti personali sono diventati meno diretti e più mediati
dagli addetti ai lavori, manager, produttori o discografici che fossero.
G.C.: E rimpiangi il fatto di non
essere stato meno ingenuo?
M.S.: Dal punto di vista artistico
assolutamente no: credo che siamo riusciti a fare un certo tipo di musica
perché tutti quanti, all'inizio della nostra avventura, eravamo
così, anche Vasco era così. Eravamo dei duri e puri con
tanta inquietudine e tanta voglia di esprimerci con la musica. Non eravamo
degli uomini d'affari che giravano con la calcolatrice in tasca. Dal punto
di vista professionale sarebbe stupido: come ho detto non avevo alcuna
esperienza di lavoro come musicista ed è stato giusto farmela,
anche a prezzo di delusioni. Rimane il punto di vista umano, e qui un
po' di rimpianti li ho: forse mi sono illuso che l'amicizia vera potesse
convivere accanto al business, ma quando il business assume tali proporzioni,
non credo ci sia molto spazio per i rapporti di amicizia profondi. Non
è colpa di nessuno, ma più il giro del business aumenta
e si fa serio, meno è facile mantenere un rapporto di amicizia
svincolato dagli affari.
G.C.:
Sai che tutto questo discorso, lungo, complesso e anche molto personale
è stato originato dalla mia domanda sul progetto Proce-Solieri?
M.S.: È vero, ma in fondo credo
che il riepilogo della mia situazione fosse necessario per capire la mia
attuale voglia di cimentarmi in prima persona, di mettere come si suol
dire la faccia, di farmi conoscere in modo più diretto e meno mediato.
Il progetto è nato in modo molto casuale, grazie all'incontro con
Fernando Proce: ho trovato lo spunto giusto per attuare cose che avevo
in mente da un po'. Fernando è un dj di RTL molto famoso, ha vinto
il telegatto l'anno scorso. Ci siamo conosciuti, abbiamo scoperto delle
affinità e dei punti di contatto all'interno di due vite piuttosto
diverse, abbiamo soprattutto rinvenuto l'uno nell'altro il medesimo desiderio
di far musica in un certo modo, e abbiamo cominciato a pensarci seriamente.
La nostra musica è nata da un percorso di ricerca prima di tutto
interiore e poi musicale. L'idea base era quella di Radio Show, io avevo
scritto la musica e avevo commissionato il testo a due persone, un ragazzo
di Milano e un amico medico di Modena. Volevo raccontare la storia
di un dj che nella notte parla alle persone più strane, inserendosi
in momenti di vita particolari. Una volta ricevuti i due testi, li ho
combinati assieme ed è venuto fuori qualche cosa che per me poteva
funzionare. Quello era "Radio Show" e ho deciso di inciderlo con Fernando.
Abbiamo proposto la cosa al presidente di RTL che si è subito dimostrato
molto interessato e così abbiamo inciso il singolo alla Phonoprint
di Bologna, avvalendoci ovviamente delle mie chitarre e di altre sonorità
che lo hanno arricchito molto: Beppe Leoncini alla batteria, Gallina
al basso e Maurizio Biancani ingegnere del suono. Questo singolo è
stato subito concepito soltanto come una operazione radiofonica, senza
annunciare in radio il nome degli interpreti e senza dare nessuna informazione.
A causa sia del tipo di sonorità costruito dalla mia chitarra acustica,
sia della struttura musicale, sia della voce di Fernando, tanti ascoltatori
hanno pensato che si trattasse dell'ultimo singolo di Vasco Rossi. Questo
perché, curiosamente, Fernando ha una voce che in certe tonalità
ricorda molto quella di Vasco. Solo in seguito è stato
svelato l'arcano. Il singolo ha avuto una buona accoglienza in radio e
abbiamo fatto anche dei passaggi televisivi che hanno funzionato molto
bene. Da lì ci siamo decisi a fare l'album, che è uscito
a febbraio, preceduto da un altro singolo uscito in dicembre. L'album
è stato realizzato con tutti i crismi, con i migliori musicisti
e, soprattutto, con le migliori intenzioni. È un'esperienza che
avevo bisogno di fare, avevo bisogno di espormi, di farmi conoscere in
un modo diverso rispetto al solito.
G.C.: Stiamo per terminare e c'è
una domanda che in tanti mi hanno pregato di rivolgerti: con Vasco il
discorso è definitivamente chiuso?
M.S.: No, non c'è nulla di
definitivo: se mi fa una proposta seria, nero su bianco, e se mi sottopone
un progetto in cui credo, io con lui riparto. Posso metterci di nuovo
la mia chitarra, il mio entusiasmo, la mia musicalità, il cuore.
Perché per lavorare bene devo metterci anche il cuore, voglio che
questo discorso sia chiaro perché tanti ragazzi continuano a chiedermi
perché non torno a suonare con Vasco. Tornerò se ci sarà
spazio per me, per la mia creatività, non per i soliti motivi economici
o per comodità, ma solo perché c'è voglia di avere
il mio contributo e di instaurare di nuovo un rapporto di stima e di fiducia.
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