Un pomeriggio d'inverno con
Maurizio Solieri
GUITAR CLUB maggio 1998

di Lorenza Cristina Sianesi
 

 

 

L'intervista che leggerete è la trascrizione integrale di un pomeriggio trascorso assieme a Maurizio Solieri, da soli, parlando per ore davanti al registratore acceso senza nemmeno bere un caffè. Ho volutamente deciso di mantenere l'andamento del nostro discorso, e quindi troverete un'intervista piena di incisi, di parentesi, un'intervista caratterizzata, come dice lo stesso Maurizio, da una narrazione circolare. Non la solita botta e risposta. Ho cercato di trasmettervi esattamente quello che Maurizio ha trasmesso a me. Alla fine mi sono accorta che non ho parlato di chitarre, di corde, di amplificatori, di tutto quello che di solito si crede interessi maggiormente al pubblico dei lettori. Proprio non mi è venuto in mente, presa com'ero a seguire tutti gli stimoli e tutti gli spunti che Maurizio mi lanciava durante la conversazione. Credo che questa intervista rappresenti bene quello che desidero ricevere dall'incontro con un musicista: per capire come suona basta la musica, ma per capire perché suona in un certo modo non basta parlare di chitarre e di ampli, di gusti musicali e di tecniche. Recentemente, confrontandomi con alcuni lettori incontrati ai concerti o ai seminari, mi sono accorta che molti di voi hanno le mie stesse esigenze. Sono sicura che questa intervista vi soddisferà. Mi scuso con gli altri, con quelli che si disinteressano delle analisi e delle esperienze: questa intervista a quel genere di lettori non piacerà proprio.
Maurizio Solieri è una persona che oltre a suonare come tutti sanno possiede una concettualizzazione invidiabile della musica e del mondo musicale: ascoltarlo parlare è una lezione per tutti, anche per coloro che si troveranno in disaccordo. Anzi, ben vengano i pareri contrari, ben vengano le polemiche: tutto è meglio dell'appiattimento, nessuno è mai cresciuto senza riflettere.
(Un'ultima cosa: avevo giurato a me stessa di non domandargli di Vasco Rossi. Pensavo che se voleva parlarne, doveva farlo spontaneamente. È stato così, ed è anche per questo motivo che ho mantenuto per iscritto l'andamento di questa nostra chiacchierata. Perché capire il rapporto con Vasco in tutte le sue implicazioni significa anche capire dove sta andando Solieri e, soprattutto, apprezzarne la determinazione, il coraggio, l'umiltà, la  voglia di "metterci la faccia").

GUITAR CLUB: Che cosa hai fatto nell'ultimo periodo?
MAURIZIO SOLIERI: A partire dall'estate 95, quindi dopo l'ultimo concerto fatto con Vasco, "Rock sotto l'assedio", ho avviato una serie di nuove collaborazioni e di nuovi progetti. Proprio nel '95, assieme a Dodi Battaglia e Franco Mussida, ho dato vita a "Chitarre d'Italia", un progetto per me molto stimolante dato che da tempo cercavo  un modo nuovo per collaborare con altri musicisti. Credo  che pochi conoscano questo aspetto del mio carattere: sono un musicista che cerca ed insegue la collaborazione e lo scambio artistico. Più volte nel corso della mia carriera, anche e soprattutto quando ero l'invidiatissimo guitar hero di Vasco, ho cercato di contattare dei colleghi per proporre progetti comuni, concepiti a volte come episodici ed estemporanei, a volte come qualcosa di maggiormente strutturato e complesso... Ho comunque avuto poca fortuna: la maggior parte dei colleghi non aveva mai il tempo necessario per seguire attivamente progetti di questo tipo, anche se, verbalmente, quasi tutti quelli interpellati si dimostravano entusiasti all'idea di collaborare. Certo, è vero che il musicista spesso assume impegni a lungo termine, che è costretto a ritmi imposti dalla produzione, che ha poco tempo per sperimentare nuove collaborazioni svincolate da una finalità professionale immediata, tuttavia io credo che in Italia manchi del tutto una mentalità collaborativa. Credo che il musicista medio italiano tenda a chiudersi dentro il proprio orticello con un atteggiamento di difesa e di diffidenza nei confronti dei colleghi. In Italia la collaborazione è vissuta in realtà come una sfida: suonare assieme non è vissuto come il piacere di creare e sperimentare, diventa piuttosto una sorta di  competizione più o meno esplicita, una gara per far vedere al pubblico chi è il più bravo, chi fa più note, chi è più figo sul palco...
G.C.: Scusa se ti interrompo, ma il discorso mi interessa: perché accade questo, secondo te? C'è veramente qualcosa nella nostra mentalità  che ci porta ad avere atteggiamenti tanto diversi rispetto agli altri paesi? Noi italiani siamo destinati a crogiolarci nel nostro individualismo anche per quanto riguarda la musica?
M.S.: Beh, il discorso sull'individualismo ci porterebbe molto lontano... Per rimanere all'interno di una prospettiva strettamente musicale, io credo che il pubblico italiano sia un pubblico mediamente dotato di buona cultura musicale, e quindi potenzialmente in grado di apprezzare forme di espressione che escano dai rigidi canoni imposti dall'industria della musica. Sono l'ambiente musicale, i media, i produttori, le case discografiche, a determinare un andamento piuttosto piatto che incentiva le collaborazioni tra artisti solo in presenza di effettive e concrete finalità commerciali, all'ombra delle logiche di scuderia. È chiaro che diventa molto difficile organizzare delle cose tra musicisti seguendo la logica del puro scambio musicale, che per me è una cosa davvero semplice: due musicisti si mettono assieme, seguono per un certo tempo un progetto comune, confrontano due stili e due differenti modi di intendere e vivere la musica e lo strumento, costruiscono un percorso, dando vita a qualcosa di nuovo che è diverso dalla somma dei due distinti mondi musicali è un terzo mondo. un terzo modo di concepire la musica nato dall'incontro di due personalità e di due vissuti distinti. Da questo genere di esperienza, tutti potrebbero trarre benefici: il pubblico, che riceverebbe stimoli nuovi e i musicisti stessi che, grazie al confronto, crescerebbero e uscirebbero dagli schemi inevitabilmente imposti dall'esercizio della musica come professione. In questo senso il progetto "Chitarre d'Italia" è stato importante: tre chitarristi diversi per vissuto, personalità e impostazione si sono uniti e, pur mantenendo la propria unicità, hanno costruito assieme qualcosa.
G.C.: Come sei riuscito a mettere in atto il progetto?
M.S.: È stato piuttosto facile, tutto è cominciato da una telefonata con Dodi. Sentendoci al telefono, entrambi ci lamentavamo della situazione italiana, dell'impossibilità di un confronto reale tra musicisti di un certo peso. Tutti e due andavamo con il pensiero alle nostre origini, ricordando i nostri rispettivi esordi, quando la musica era sudore condiviso, esplorazione collettiva, entusiasmo continuo. Ci è venuta voglia di recuperare qualcosa di quell'entusiasmo adolescenziale, di dimostrare a noi stessi prima che agli altri che la professione, la consuetudine con il palco, i dischi macinati, le infinite ore in studio di registrazione alle spalle, non erano incompatibili con un atteggiamento più audace, non spegnevano gli entusiasmi degli esordi. Abbiamo sentito l'esigenza di rimetterci in gioco e, invece di farlo in cantina per i fatti nostri, abbiamo ritenuto più giusto e sincero farlo coinvolgendo il pubblico, non certo per dimostrare qualche cosa, unicamente per renderlo partecipe di questo nostro desiderio di sperimentazione, una sperimentazione esistenziale prima ancora che musicale. Proprio perché alla base di tutto c'erano delle motivazioni così legate al nostro vissuto, al nostro modo di intendere la musica, alla nostra esperienza di uomini, Dodi  ed io abbiamo pensato di coinvolgere nel progetto Franco Mussida, un grande chitarrista di cui, per diversi motivi, tutti e due ci siamo sempre considerati un po' figliocci. Franco ha accettato e così il progetto ha preso il via. Ricordo ancora il primo nostro appuntamento: era una domenica mattina e Dodi e Franco sono arrivati a casa mia, con gli strumenti, proprio come tutti abbiamo fatto da ragazzi.
G.C.: Dalle tue parole mi pare di capire che, oltre al desiderio di confronto, era molto forte anche la voglia di fare un viaggio verso le origini dell'entusiasmo...
M.S.: È assolutamente vero, e per spiegartelo vorrei raccontarti qualcosa della psicologia del chitarrista quarantenne...
G.C.: Come sai per me è un invito a nozze, ma stiamo attenti: c'è già qualcuno che mi accusa di fare il gossip della chitarra, se arriviamo a parlare di calo del desiderio non mi salvo più...
(n.d.a.: Maurizio ride con quella sua bella risata larga e dice che il sesso non c'entra niente, c'entra, manco a dirlo, l'entusiasmo.)
M.S.: Più volte nella mia carriera mi sono accorto che i chitarristi della nostra generazione, quelli che sono arrivati alla boa dei quaranta, generalmente sono capaci di entusiasmarsi moltissimo, più dei ventenni o dei trentenni. E guarda che questo vale anche per i chitarristi internazionali. È un discorso generazionale, bisogna ripercorrere la storia della musica tenendo presente anche la storia del costume e della società e cercare di capire qual era il clima culturale e sociale in cui i quarantenni di oggi si sono formati... Scegliere di fare il musicista venti, venticinque anni fa, era una scelta di vita molto più complessa e ardua di quanto lo sia oggi. Oggi l'unico problema è quello di diventare abbastanza bravo per poter lavorare, di avere abbastanza fortuna e abbastanza talento per vivere facendo musica. Negli anni '60 la questione era molto diversa: scegliere la vita e la professione del musicista implicava inevitabilmente uno scontro con il sistema esterno, una lotta contro i pregiudizi. Chi decideva di proseguire nella musica lo faceva a suo rischio e pericolo, sapendo di doversi scontrare contro tante cose, contro una mentalità diffusa terribilmente chiusa e limitativa, contro l'assenza di strutture d'ausilio, di luoghi deputati a suonare, di punti di incontro, di scuole, di videocassette, di metodi, di giornali specializzati... Il musicista era davvero solo, appoggiato solamente da quelli che, come lui, avevano deciso di dare una scrollata ai luoghi comuni. Era quindi naturale che si creasse una sorta di affinità, di solidarietà e anche un entusiasmo speciale che accomunava quanti, in nome della musica, sceglievano di scontrarsi e di lottare contro ostacoli che oggi si fa fatica ad immaginare. I quarantenni di oggi hanno lottato per attuare la loro scelta e la musica per loro non è mai mestiere, business, divertimento, è molto di più, ha quel valore speciale che le cose acquistano solo quando si è combattuto per raggiungerle. E poi, scusa, consentimi un'altra piccola digressione...
G.C.: Consento e acconsento a tutto e sento che il filo logico di questa intervista mi sta sfuggendo di mano, ma va bene così, anzi: va meglio.
M.S.: Perfetto, ho una narrazione concentrica ma poi riprendo il tuo filo logico, non preoccuparti, lasciami solo dire due parole sul concetto di "entusiasmo". Non si tratta del divertimento che la musica procura o della carica che uno mette nel suonare. L'entusiasmo è molto di più: è energia, impegno, passione, consapevolezza, audacia, voglia di andare avanti, non fermarsi mai sui risultati acquisiti ma cercare sempre un nuovo modo per esprimersi con la musica, tenendo sempre presente, in ogni momento, che non suoniamo per noi stessi e quindi c'è un pubblico a cui abbiamo l'onore di rendere conto. In questa prospettiva cambia anche il rapporto tra il musicista e il suo strumento: oggi si vedono in giro dei principianti già attrezzati di un equipaggiamento incredibile, strumenti che non sono nemmeno in grado di apprezzare fino in fondo, come se per suonare bene servisse quasi esclusivamente una chitarra costosa e super accessoriata... Io gli strumenti che ho avuto me li sono sudati tutti, guadagnati fino in fondo, e quindi apprezzati anche nelle sfumature. La prima chitarra elettrificata che utilizzai fu una vecchia Eko da otto- mila lire amplificata con un pick up del giradischi collegato all'uscita fono di una radio e come me ce ne sono decine di musicisti che hanno cominciato così. È per questo che anche oggi, quando prendo uno strumento in mano, mi emoziono e mi entusiasmo ancora.
G.C.: Mi piace molto questa tua analisi sociologica dell'entusiasmo che arriva anche a coinvolgere il rapporto con gli strumenti e quindi sottolinea implicitamente quella specie di consumismo che caratterizza oggi il fruitore medio di materiale musicale, quasi che con l'atto di acquisto di una mega chitarra o dell'ultima video cassetta didattica americana si potessero anche raggiungere dei risultati musicali... Come quelli che al chitarrista famoso, invece di chiedere quali passi lo hanno portato ad essere quello che è, quali sacrifici e quali incontri, quali intuizioni e quali talenti, domandano se per fare il bending serve leggere la musica...
M.S.: Infatti, un atteggiamento del genere non porta lontano, e potremmo arrivare a parlare della ben nota differenza tra musicista e strumentista. Ma torniamo al nostro argomento principale: "Chitarre d'Italia". È stato un modo per trovare dei nuovi stimoli assieme a musicisti che, per quanto diversi da me, hanno una storia in comune e, come ho spiegato, assieme alla storia hanno alle spalle una lotta e nel cuore un certo modo di concepire la musica. Ricordo con molto piacere la nostra prima esibizione pubblica durante l'importante Festival Blues di Napoli del '95,  un Festival  a cui hanno partecipato grandi musicisti nazionali e internazionali. L'incontro con certi bluesmen mi ha davvero fatto piacere, anche perché io mi considero di cultura anglo-americana e le radici della mia preparazione affondano negli USA e in UK: agli inizi della mia formazione non ho seguito troppo l'evolversi della situazione musicale italiana. Da bambino ascoltavo Presley; mio fratello era stato in America alla fine degli anni '50 ed era tornato con la valigia piena di dischi di Elvis di cui mi sono subito impossessato, poi sono passato agli Shadows, ai Beatles, agli Stones... Ho sempre cantato in inglese e musicalmente ho sempre avuto un occhio rivolto alla cultura musicale anglo-americana mentre non ho assolutamente nutrito la mia conoscenza di cantautori italiani, anche perché chitarristicamente fare un pezzo di Lucio Battisti - Mi Re La Sol - non mi ha mai stimolato troppo... Per me la prima uscita con le "Chitarre d'Italia" è stata molto soddisfacente anche perché ho avuto la possibilità di jammare assieme a Dodi con Jack Bruce facendo i classici dei Cream o di Eric Clapton che io suonavo quando avevo dodici anni... Comunque, ci sarà uno sviluppo in vinile entro il '98 di "Chitarre d'Italia". Il concetto di base dei pezzi nuovi che stiamo preparando per l'album è l'aspetto acustico che sarà esaltato dalla continua interazione tra le tre chitarre; anche se ci sarà spazio per momenti solistici, vi sarà un grande lavoro di armonizzazione volto a mantenere anche in questo tipo di composizioni il minutaggio della pop song. Non ci saranno interventi di chitarra elettrica. Ci potranno essere dei tocchi  particolari, delle pennellate di diversi linguaggi musicali, dal blues alla bossanova alla musica classica, mantenendo però sempre una forma musicale fruibile e facilmente comprensibile. In alcuni pezzi, vi saranno dei brandelli di testi, non certo la struttura tipica della canzone melodica, strofa inciso e assolo chitarristico,  piuttosto delle frasi cantate, armonizzate a volte a tre voci, a volte da uno solo di noi tre. Tutti i pezzi sono stati composti da noi appositamente: certi brani erano stati scritti da uno di noi tre e poi sono stati riarrangiati collettivamente, altri brani sono stati scritti da uno e arrangiati da un altro, in totale libertà e con un'atmosfera generale che incentivava la sinergia, l'interattività anche a livello compositivo e non solo a livello esecutivo e interpretativo. Abbiamo sempre lavorato nel classico salotto con le tre chitarre acustiche e un piccolo registratorino cercando di sviluppare l'uno gli input degli altri. Non sarà un disco rock: sarà però un disco energico, molto mediterraneo, con spunti new age.
G.C.: Un altro progetto interessante che ti vede coinvolto in prima persona, addirittura con la voce, è il duo con Proce di cui ormai stanno parlando in molti... Vuoi raccontarci qualcosa?
M.S.: Certo, ma a questo punto, anche se non me lo hai ancora chiesto, c'è qualcos'altro che ti voglio raccontare. Come tutti sanno, ho lavorato per tantissimi anni con Vasco, con uno staff che ho contribuito a creare e con una serie di soddisfazioni professionali e umane che per me sono state importantissime. Parlo di un periodo di vita lunghissimo: dal '77 al '95, se ci pensi sono davvero tanti anni. Per una mia scelta precisa e consapevole mi sono dato anima e corpo a questa situazione, anche se più volte, come ho detto prima, ho sentito forte dentro di me l'esigenza di confrontarmi con altre situazioni e altri artisti, di crescere in altre direzioni, pur senza tradire né mettere in secondo piano il discorso musicale ed esistenziale che assieme a Vasco e agli altri musicisti portavamo avanti. Ma, oltre alle difficoltà di cui parlavamo prima, io ero sempre visto come "il chitarrista di Vasco Rossi", quasi che la mia chitarra funzionasse solo con Vasco o con la Steve Rogers Band. Durante tutta l'era di Vasco, pochi hanno realmente voluto confrontarsi con me. Vorrei raccontare un episodio: tre anni fa accarezzavo il progetto di  fare un disco da solo chiamando come ospiti i personaggi più rappresentativi del rock italiano, e anche qui, ci sarebbero degli approfondimenti da fare sul concetto di rock ...
G.C.: Credo che sia la seconda parentesi che apriamo senza chiudere: se poi ritrovi il filo, approfondiamo pure, così magari mi chiarisci le idee sul  concetto di rock italiano che  io non capisco più, non riesco più a distinguere dal resto della musica...
M.S.: Chiaramente io posso aiutarti in base alla mia sensibilità e alla mia storia, le mie parole non hanno pretesa di assoluto, anzi certe persone potranno trovarsi in totale disaccordo con quello che ti dirò... Oggi si fa un gran parlare di rock italiano, citando gruppi che per me non fanno rock. Per me il rock non è quello omologato tipo Nomadi o CSI, così come non bastano le magliette di Che Guevara e i libri giusti per costruire un'atmosfera rock... La musica è rock quando ci sono sia i contenuti che la forma rock.  Per me il rock è musica grintosa che trova le sue radici in una visione rock  nel senso esistenziale del termine e che si esprime attraverso una base di chitarra forte e personale, energetica e vitale. Il rock poi, per sua stessa natura, accoglie contaminazioni che vanno dal blues alla fusion all'heavy e questa apertura verso differenti linguaggi musicali non toglie nulla a quella che è  l'anima propria e costitutiva della musica rock. Oggi invece si tende a spacciare per rock un tipo di musica che ha perduto questa anima e si è impossessato solo dei codici più esteriori del rock.
G.C.: Quindi in molti casi possiamo dire che la forma ha invaso la sostanza, si è in qualche modo sostituita ad essa ed ha perduto la linfa vitale che fa di un linguaggio musicale una categoria dello spirito, una forma d'arte, un fenomeno in grado di veicolare valori e visioni del mondo e del tempo. Quindi certi concerti cosiddetti rock sono riti vuoti che tentano di esprimere una emozione che non c'è più e certi riff di chitarra, certi suoni, certi gesti sullo strumento diventano pura tecnica, pura esibizione, pura forma e forse è per questo che mi trasmettono la stessa noia di una videocassetta didattica...
M.S.: Io la penso così, ma attenzione: la nostra è una posizione scomoda, che può essere pesantemente contestata, e scrivere queste cose ti chiamerà addosso una valanga di critiche. Io ho le spalle larghe, ma tu puoi sempre scegliere la via della diplomazia.
G.C.: Non è mia abitudine far sbilanciare un interlocutore e poi lasciarlo solo nella esposizione di idee che condivido profondamente. Torniamo al tuo progetto di un disco rock...
M.S.: Bene, era un disco di concezione americana: a mio nome con la partecipazione e il coinvolgimento artistico di musicisti rock che avrebbero dovuto ritagliarsi in modo creativo il loro spazio, intervenendo dappertutto, dagli arrangiamenti ai cori, dalle  parti strumentali al cantato, magari cimentandosi in cose diverse dal loro solito, proprio come fanno gli artisti internazionali. Era, nella mia testa, un modo per dar voce all'anima rock dei grandi musicisti e cantanti di casa nostra, dando loro la libertà di esprimere la propria anima nei modi che preferivano, liberi dai ruoli codificati. Avevo anche composto dei pezzi, contattato le persone che ritenevo giusto coinvolgere nel progetto: come al solito a livello verbale tutti si erano dichiarati entusiasti e convinti, poi, al dunque, non se ne è fatto niente. Impegni, contratti, tournée, vincoli: la solita storia. Ho raccontato questo episodio solo per far vedere che più volte, in passato, ho cercato di fare cose diverse, sia per il desiderio di scambio e di collaborazione, sia perché in fondo mi è sempre stato stretto essere ritenuto "il chitarrista di Vasco". Attenzione, però, con questo non voglio assolutamente sembrare ingrato e, soprattutto, non voglio essere frainteso, non voglio che si pensi che dico così adesso che il mio rapporto con Vasco si è concluso. Si cresce con la molteplicità e la diversificazione delle esperienze, e ho sempre creduto, anche nei tempi di massimo affiatamento con Vasco, che sarei stato un musicista migliore sperimentandomi in altre situazioni musicali.  Ecco, questo è essenziale: non vorrei che qualche malevolo pensasse che questa esigenza di altre esperienze e di scambio sia sorta con la fine del sodalizio con Vasco: l'ho sempre avuta, anche se chiaramente avevo meno tempo e meno possibilità di metterla in pratica.
G.C.: Ancora una volta mi hai dato il LA e ancora una volta io non mi tiro indietro.Ti faccio una domanda ovvia ma so che tanti lettori vogliono saperlo con chiarezza, leggendo le tue parole nero su bianco: avevi una fama ingombrante? Hai vissuto male il tuo ruolo così definito per tanti anni? Ti sentivi altro?
M.S.: Grazie di avermela fatta, questa domanda: io dico spesso che non si può prescindere dall'ovvio. Sì, avevo una fama ingombrante, certe volte nella mia vita mi sono sentito un poster appeso in una stanza, spesso la gente non ha voglia di vedere dentro, di capire, e si accontenta della apparenza. Ma, per essere sincero, il peso della mia fama mi è caduto addosso una volta che il mio rapporto con Vasco si era concluso,  tra l'altro in modo piuttosto sgradevole. In quel periodo mi sono accorto di essere per tutti ancora e sempre non solo il chitarrista di Vasco ma il suo amicone, quello che vedeva Vasco a colazione a pranzo e a cena, cosa che non è mai stata vera. Io ho avuto con Vasco un rapporto molto forte anche dal punto di vista umano ma non abbiamo mai vissuto in simbiosi. Certo, nei primi tempi assieme alla band e al produttore eravamo una specie di famiglia, questa è una cosa che spesso si verifica nei gruppi che perseguono un progetto forte, che sono accomunati da molti valori e molti desideri. Ma con gli anni questo affiatamento fuori dello studio si è perso, anche perché Vasco è un cane sciolto, è  un uomo che giustamente tende a vivere una vita sua, privata, e non divide le ore della sua giornata con i musicisti. Quindi noi non eravamo i compagnoni, ma nell'immaginario della gente questa cosa è dura a morire. E poi, voglio rispondere al resto della tua domanda perché tocca un tema che per me adesso è molto importante. Ho vissuto male il fatto di essere ancora oggi considerato solo "il chitarrista di Vasco" proprio perché mi sentivo altro: mi sono sentito sempre un musicista completo, intendo dire anche uno che sente la musica dentro di sé ed è in grado di comporla. Ho scritto dei pezzi per Vasco ma ho finito per essere identificato solo per il modo di suonare la chitarra o, quel che è peggio, per il modo di stare sul palco. Nella band di Vasco ho avuto certo il mio spazio,  Vasco me lo ha sempre riconosciuto, ma questo poi non è mai stato comunicato all'esterno. Quando abbiamo cominciato a lavorare assieme, Vasco non aveva certo un forte background rock: era molto più ferrato sui cantautori italiani, ascoltava i Rolling Stones ma era privo di quella profonda cultura rock che io mi ero costruito negli anni. Certe sonorità, una certa impronta, certe suggestioni, credo di essere stato io a portarle e a immetterle in quello che poi è passato alla storia come "il mood di Vasco Rossi". Pertanto, guarda, è difficile esprimerlo, ma il discorso diventa paradossale: mi sono sentito schiacciato da una fama ingombrante e, al tempo stesso, limitante. Per gli  altri Solieri era  bravissimo, famosissimo, come tu dicevi prima a registratore spento, un po' ombroso, misterioso, lontano dallo show business, dall'ansia di apparire a tutti i costi e quindi, forse proprio per questo, così ben incasellato dentro allo scomodo ruolo di guitar hero del grande rocker italiano... E il risultato, ovviamente, era che dopo Vasco non lavoravo, non mi chiamava nessuno. Ho provato a propormi a vari personaggi famosi del rock italiano ma nessuno si è arrischiato a prendermi. In più considera che non sono uno yes man, uno che fa quello che gli dicono senza metterci niente di suo, sono un professionista con anni di lavoro alle spalle e, soprattutto per quanto riguarda gli arrangiamenti delle chitarre, ho voglia di dire la mia. Quando lavoravo con Vasco, dopo i primi anni, gli arrangiamenti delle chitarre li facevo da solo assieme al fonico, Maurizio Biancani, spesso senza il produttore. E, al 90% erano perfetti, Vasco li ascoltava e li approvava: c'erano ormai tali e tanti automatismi, una tale conoscenza e condivisione, che io sapevo interpretare con la chitarra quello che Vasco voleva esprimere.
G.C.: Avresti pensato, quando hai iniziato a suonare, di ritrovarti quasi schiacciato dalla tua fama, in un periodo finalmente concluso della tua vita?
M.S.: No, assolutamente no, quando ho cominciato non mi sono certo fatto dei problemi. Credo che raccontare qualche cosa della mia storia possa far capire, a te e ai lettori, che, se ero molto preparato musicalmente, non ero altrettanto preparato in altri settori che coinvolgevano comunque la professione del musicista. Mio padre è medico e in casa mia era abbastanza scontato che noi figli ci laureassimo tutti, la mia era la classica famiglia borghese che dava enorme importanza alla cultura. Nonostante io avessi dimostrato fin da piccolo una netta predisposizione artistica e soprattutto musicale, il fatto che diventassi  un chitarrista era una ipotesi che i miei genitori ritenevano assurda e impraticabile. All'inizio vivevo la musica come il grande amore della mia vita, qualcosa che catalizzava tutte le mie energie ma avevo comunque scelto di laurearmi in medicina e sono arrivato al terzo anno di facoltà. Non avevo mai fatto l'orchestrale, non avevo mai suonato per guadagno. Fino a ventitré anni ho abitato con i miei e ho vissuto la classica vita del figlio di famiglia per bene. Fino a quando  ho capito che non mi sentivo di appartenere totalmente a quel mondo, ho percepito la profonda differenza che c'era tra me e i miei compagni di corso e ho iniziato a credere di dover scegliere di vivere un'altra vita. Mi presi un anno di tempo per pensare e anticipai il servizio militare: posso dire che mi è servito molto. Nonostante le situazioni difficili che la vita militare mi ha riservato, quel periodo è stato per me una grande scuola di vita ed è stato utilissimo per farmi decidere tante cose. Prima di tutto ho deciso che la musica sarebbe stata la mia professione. Una volta tornato dal servizio militare, ho cominciato a lavorare in una radio libera, che già allora era una delle prime radio di Italia, e sono andato a vivere da solo. Guadagnavo 300.000 lire al mese e condividevo un appartamentino con Massimo Riva: più tardi si sarebbe unito a noi anche Vasco. Abbiamo cominciato a suonare, senza nessuna concezione e consapevolezza dell'ambiente in cui ci stavamo inserendo. Non avevamo frequentato le scuole di musica e questo incide non solo sul tipo di preparazione musicale ma anche, in senso lato, sul tipo di conoscenza che uno sviluppa circa i meccanismi discografici e di produzione artistica: un ragazzo che oggi esce da una scuola di musica di media grandezza, sa già tante cose sull'ambiente musicale, così come il lettore delle riviste specializzate che, attraverso l'esperienza dei musicisti affermati, gli articoli e gli approfondimenti, può sviluppare una visione di insieme già abbastanza strutturata. Noi, quelli della mia generazione, non sapevamo niente perché avevamo imparato a suonare da soli, avevamo messo su i primi gruppi in cantina, non avevamo nessuna pubblicazione specializzata a disposizione e non frequentavamo scuole di musica. Ci siamo buttati, e abbiamo imparato vivendo. Ci siamo inventati tutto e la gioia di suonare in una band ci ha portato a disinteressarci di tutti gli aspetti collaterali alla musica: quando nel 1981 facevamo le prime televisioni, non ci veniva nemmeno in mente che la Rai potesse pagare un gettone di presenza alla band e non abbiamo mai pensato di chiedere dei soldi extra per esibirci in TV. Stessa cosa per i diritti d'autore: quanti arrangiamenti, quante parti, quanta musica abbiamo regalato senza sapere che avevamo il diritto di vederci riconosciuta una royalty per tutta la musica che componevamo di getto in sala di registrazione! Eravamo troppo presi dall'idea di suonare la musica che ci piaceva per occuparci del business e troppo poco informati  per pretendere un certo trattamento. Ho raccontato queste cose per far capire che io, all'epoca del mio incontro con Vasco, ero assolutamente digiuno di tante cose, non ero assolutamente consapevole dei meccanismi e degli ingranaggi del mondo musicale, avevo solo entusiasmo e talento. Con il successo le cose si sono complicate, i rapporti personali sono diventati meno diretti e più mediati dagli addetti ai lavori, manager, produttori o discografici che fossero.
G.C.: E rimpiangi il fatto di non essere stato meno ingenuo?
M.S.: Dal punto di vista artistico assolutamente no: credo che siamo riusciti a fare un certo tipo di musica perché tutti quanti, all'inizio della nostra avventura, eravamo così, anche Vasco era così. Eravamo dei duri e puri con tanta inquietudine e tanta voglia di esprimerci con la musica. Non eravamo degli uomini d'affari che giravano con la calcolatrice in tasca. Dal punto di vista professionale sarebbe stupido: come ho detto non avevo alcuna esperienza di lavoro come musicista ed è stato giusto farmela, anche a prezzo di delusioni. Rimane il punto di vista umano, e qui un po' di rimpianti li ho: forse mi sono illuso che l'amicizia vera potesse convivere accanto al business, ma quando il business assume tali proporzioni, non credo ci sia molto spazio per i rapporti di amicizia profondi. Non è colpa di nessuno, ma più il giro del business aumenta e si fa serio, meno è facile mantenere un rapporto di amicizia svincolato dagli affari.
G.C.: Sai che tutto questo discorso, lungo, complesso e anche molto personale è stato originato dalla mia domanda sul progetto Proce-Solieri?
M.S.: È vero, ma in fondo credo che il riepilogo della mia situazione fosse necessario per capire la mia attuale voglia di cimentarmi in prima persona, di mettere come si suol dire la faccia, di farmi conoscere in modo più diretto e meno mediato. Il progetto è nato in modo molto casuale, grazie all'incontro con Fernando Proce: ho trovato lo spunto giusto per attuare cose che avevo in mente da un po'. Fernando è un dj di RTL molto famoso, ha vinto il telegatto l'anno scorso. Ci siamo conosciuti, abbiamo scoperto delle affinità e dei punti di contatto all'interno di due vite piuttosto diverse, abbiamo soprattutto rinvenuto l'uno nell'altro il medesimo desiderio di far musica in un certo modo, e abbiamo cominciato a pensarci seriamente.  La nostra musica è nata da un percorso di ricerca prima di tutto interiore e poi musicale. L'idea base era quella di Radio Show, io avevo scritto la musica e avevo commissionato il testo a due persone, un ragazzo di Milano  e un amico medico di Modena. Volevo raccontare la storia di un dj che nella notte parla alle persone più strane, inserendosi in momenti di vita particolari. Una volta ricevuti i due testi, li ho combinati assieme ed è venuto fuori qualche cosa che per me poteva funzionare. Quello era "Radio Show" e ho deciso di inciderlo con Fernando. Abbiamo proposto la cosa al presidente di RTL che si è subito dimostrato molto interessato e così abbiamo inciso il singolo alla Phonoprint di Bologna, avvalendoci ovviamente delle mie chitarre e di altre sonorità che lo hanno arricchito  molto: Beppe Leoncini alla batteria, Gallina al basso e Maurizio Biancani ingegnere del suono. Questo singolo è stato subito concepito soltanto come una operazione radiofonica, senza annunciare in radio il nome degli interpreti e senza dare nessuna informazione. A causa sia del tipo di sonorità costruito dalla mia chitarra acustica, sia della struttura musicale, sia della voce di Fernando, tanti ascoltatori hanno pensato che si trattasse dell'ultimo singolo di Vasco Rossi. Questo perché, curiosamente, Fernando ha una voce che in certe tonalità ricorda molto quella di Vasco. Solo in seguito è stato   svelato l'arcano. Il singolo ha avuto una buona accoglienza in radio e abbiamo fatto anche dei passaggi televisivi che hanno funzionato molto bene. Da lì ci siamo decisi a fare l'album, che è uscito a febbraio, preceduto da un altro singolo uscito in dicembre. L'album è stato realizzato con tutti i crismi, con i migliori musicisti e, soprattutto, con le migliori intenzioni. È un'esperienza che avevo bisogno di fare, avevo bisogno di espormi, di farmi conoscere in un modo diverso rispetto al solito.
G.C.: Stiamo per terminare e c'è una domanda che in tanti mi hanno pregato di rivolgerti: con Vasco il discorso è definitivamente chiuso?
M.S.: No, non c'è nulla di definitivo: se mi fa una proposta seria, nero su bianco, e se mi sottopone un progetto in cui credo, io con lui riparto. Posso metterci di nuovo la mia chitarra, il mio entusiasmo, la mia musicalità, il cuore. Perché per lavorare bene devo metterci anche il cuore, voglio che questo discorso sia chiaro perché tanti ragazzi continuano a chiedermi perché non torno a suonare con Vasco. Tornerò se ci sarà spazio per me, per la mia creatività, non per i soliti motivi economici o per comodità, ma solo perché c'è voglia di avere il mio contributo e di instaurare di nuovo un rapporto di stima e di fiducia.